QUANDO SI CAMBIA NON SI FA RUMORE
RICORDATI
CHI ERI.
PER RICORDARTI
CHI SEI.
Il suo studio si trovava
in un anonimo edificio bianco
accanto all’ospedale.
Suonavo il campanello esitante con la perenne sensazione di disturbare. Sobbalzavo sempre quando la porta d’ingresso si apriva. Non amavo prendere l’ascensore: era uno di quegli ascensori piccoli con la luce al neon che fa apparire tutto verde, i piccoli tasti rotondi, le pareti in metallo grigio, niente specchio. Ma in fondo era meglio che salire le scale dove gli stretti spazi e la mancanza di luce mi incutevano ancora più ansia. Al piano, negli anni, non incontrai mai nessuno. Eppure ero certa ci fosse un quotidiano dietro quelle porte. Lo zerbino o il portaombrelli me lo facevano intuire. Ma io, cresciuta in una grande casa in campagna, mi chiedevo se qui la gente fosse felice. Attendevo a pochi metri dalla porta d’ingresso nello stretto corridoio, che lei mi aprisse la porta. Era insolito perfino incontrare chi mi aveva preceduto. In quel lasso di tempo in cui lei sedimentava e compensava tra una seduta e l’altra, avveniva lo scambio di persone: immagino che chi salisse, scegliesse l’ascensore come me e le scale per ridiscendere. Se i tempi erano rispettanti, tra il suono di campanello, l’apertura del portone d’ingresso, la salita in ascensore, era difficile scontrarsi.
Lo studio si affacciava su un ampio parco che negli anni mi dava il ritmo delle stagioni. Un terrazzo esterno permetteva di avere un tetto tanto sporgente da avere gli occhi riparati dal sole, una volta seduta. Lei dava le spalle all’ampia vetrata, lasciando me spaziare dai suoi occhi all’orizzonte che intravedevo oltre i palazzi. O distrarmi a seguire le chiome degli alberi nelle giornate di vento. La luce della stanza era sempre naturale, mai una luce accesa. Alla mia destra un divano come ci si aspetta sempre di incontrare in questi casi e un enorme pianta di Filodendro che raggiunto il soffitto scorreva poetica sopra di noi. Lei sì che era felice…non ho mai notato un momento di stanchezza nel suo inesorabile crescere.
Alla mia destra una libreria ricopriva tutta la parete. I numerosi testi parlavano di medicina e psicologia, ma discretamente addobbavano le mensole senza creare pressioni. Un tavolo in legno scuro aveva la precedenza sulla libreria. La nostra invece era una piccola scrivania in legno con un piccolo cassetto che lei sovente apriva per prendere un fazzoletto. Appoggiate delle piccole cornici e un agenda su cui annotava gli appuntamenti. Immagino che tra quelle piccole cose appoggiate ci fosse anche un piccolo orologio; la mancanza di riferimenti temporali durante i nostri incontri dovevano essere scanditi da un inizio e una fine, sempre attentamente osservati. La sedia su cui sedevo era una poltroncina parigina in legno che adottava forme rotonde e avvolgenti. Nel preciso istante in cui mi sedevo, avveniva il silenzio dell’incontro.
Sul lungo elenco di proprietari scritto sui campanelli accanto al portone d’ingresso del condominio, il suo vedeva annotato il nome dello Studio del marito, Dott. Chirurgo ecc. ecc. Mi ci ritrovai spesso a leggerli tutti nell’attesa o fingendo di cercare qualcuno, qualora mi paresse di aver destato l’attenzione di qualche passante. Il senso di vergogna che accompagnava quegli incontri, mi seguì per molti anni. Eppure ricordo esattamente il primo incontro o ricordo ancor più il gusto amaro della vita che costantemente sentivo in bocca e le onde burrascose che mi facevano perdere i sensi e mi confondevano l’orizzonte in ogni istante della giornata. In questo continuo rimescolio in cui vivevo, la boa che traballante un amico mi aiutò a raggiungere, mi parse l’unico placebo al mio malessere.
Non avrei immaginato che sarebbe seguita una inevitabile discesa negli inferi. Lei me lo chiese da subito se io me la sentissi e io tra le lacrime le dissi: SI. _segue…_
la conquista della propria identità non è una faccenda da adolescenti: ci si dà fiducia solo se si è passati attraverso molte prove, si ha costruito e distrutto, lavorato, faticato, si è stati esaltati e delusi, si ha vinto, si ha perso. Serve una vita per diventare se stessi, anno dopo anno.
_Daria Bignardi_
É un Autunno lungo in Dolomiti in un anno insolito dove tutti siamo chiamati a comprendere che la nostra natura è farne parte come un animale, come un albero, come un sassolino. Proprio come ci ricorda Sebastião Salgado nella sua opera Genesis.
La mia natura invece ha incontrato un percorso accidentato prima di giungere ad abitare in Dolomiti. E sono proprio loro con la loro autorevole solitudine, il loro silenzioso cambio di stagione, la loro coinvolgente bellezza che mi ricordano ogni giorno di ricordarmi chi ero, da dove vengo, la strada percorsa…per ricordarmi che non sono nata qui ma ne faccio parte come lo è il più piccolo dei sassolini.
Da qui a poco arriverà la neve. Silenziosa.
E la natura cambierà di nuovo, senza fare rumore.